Siamo in un tempo che richiede cambiamenti di approcci, modelli da immaginare, riconversioni di professionalità. Se il fine è la comunità educante, la via giusta diventa confrontarsi su ciò che ci inibisce e blocca e provare a scrivere un nuovo linguaggio del dire e del fare.
16 gruppi di incontro/scontro che hanno impegnato i partecipanti a lavorare insieme con le loro differenti competenze professionali e visioni di approcci sul tema dato.
Il Futuro ci sta davanti ma ci sta dentro nelle aspirazioni che siamo in grado di condividere e far emergere, di portare alla luce e di mettere a risultato. Il futuro è nel passato di ciò che siamo e di cosa abbiamo appreso. Il futuro è una cifra da imparare disimparando molto di ciò che sappiamo.
Se volessimo dire quale sia la principale competenza di mestieri (im)possibili come l’educare e il prendersi cura, troveremmo l’empatia. L’empatia è la linfa vitale che circola nelle comunità educanti rendendole generative di sovranità: su se stessi e nelle relazioni di cittadinanza.
Per molti è un numero legato a una ripartizione matematica di quanti ‘se ne possono accogliere’. Per quelli sul campo è una pratica che richiede attivazione di soluzioni e processi che, in assenza di politiche definite e chiare, fa della provvisorietà la sperimentazione di un sociale più umano o disumano? Dipende. E se dipendesse da noi?
Da niente nasce tutto. Nel corso del tempo abbiamo perso i sensi. Contemporaneamente abbiamo perso anche lo spazio fisico e sociale per sviluppare, oltre ai i sensi, la socialità, l’intelligenza, la motricità… e i bambini nelle nostre città sono diventati invisibili. Per ritrovare e provare le nostre competenze individuali (cittadinanza) e collettive (comunità), dobbiamo riprenderci e dare un senso allo spazio.
La scommessa della cooperazione in educazione sta nel far stare insieme la diversità. Si cresce, si impara, si sta bene “giocandosi” con compagni di-versi. Nel gruppo posso cercare “quello che non ho”, scoprire “quel che non mi manca”. Conoscere e ri-conoscersi in un gioco di reciprocità. Insieme si stabilisce la direzione, il verso della ricerca comune.
Non siamo solo diversi ma soprattutto siamo plurali. Noi come la realtà siamo espressione di principi ugualmente primi, non riconducibili gli uni agli altri. Riconoscere le pluralità nei sistemi educativi dice il paradigma agito che mette a valore l’io plurale nel noi comunità.
Funziona come una spinta, una forza centrifuga e non centripeta. Un movimento, anzi il movimento, che spinge verso il cambiamento del sistema che ci vuole uguali per riduzione delle differenze o per somme o per scarto. Non si tratta di allineare e sovrapporre, di riportare a un dentro ma di costruirne un nuovo dove le diversità siano includenti.
È una pratica. Non un dogma di fede. È un esercizio che moltiplica e somma, divide e sottrae a seconda delle prove a cui ci alleniamo per arrivare a risultati la cui verifica dipende dal valore che ognuno mette in gioco. Sfidando se stesso prima ancora che gli altri.
Legami o légami. La parola è la stessa. Un accento fa la differenza della pronuncia e della relazione tra l’io e il tu. Perché da come ci leghiamo all’altro dipendono i legami comunitari che agiamo.
Non è chi sei ma come stai che fa la differenza nella relazione di apprendimento con l’altro e dall’altro. Come stai è il gancio per mollare o spingere, far mollare o far spingere. Che agisce su di te e sul cambiamento che puoi attivare e far attivare.
Chiariamo: complesso non è complicato. Ma se abbiamo sempre immaginato e agito l’educazione come un processo lineare in cui l’imput presuppone un preciso output, allora sì che complesso diventa anche complicato in un tempo, come il nostro, in cui educare necessariamente richiede connessione di principi e valori, valorizzazione dell’eterogeneità, collegamenti tra approcci e sguardi multidiciplinari e intedisciplinari.
Il problema non è cominciare ma ri-partire dopo gli insuccessi, i fallimenti, dopo che situazioni di inerzia ci hanno delegittimato e anche impoverito. Eppure non ci è dato, come professionisti della cura e dell’educare, non declinare il tempo ripartire che non è dividere e dividersi ma ritrovarsi per partire ancora una volta.
Tutto è dato. Tutto è conosciuto. Tutto è sperimentato. Tutto è consumato. Quindi abbiamo altro da scoprire. Perché ogni qual volta si è pensato che tutto era compiuto, il miracolo carsicamente ha preso vita.
Lo diciamo tutti noi, per convinzione o per convenzione: la bellezza salverà il mondo. Quale bellezza? Quella che siamo capaci di scoprire, di riconoscere e di proteggere. Quella che siamo capaci di creare o ri-creare, anche riparando un pezzo di vita.
Mettiamo un luogo: la scuola. Prendiamo un caso: adolescente problematico. Nasce un caso. Chi lo ascolta? Chi se ne fa carico? Compito di psicologo o insegnanti? Assistente sociali o famiglia? Poi si scopre che il ‘caso’ lo conosce bene il bidello del secondo piano. Allora l’ascolto è un compito assegnato a una funzione o un processo che attiva relazioni e responsabilità?
I sistemi si evolvono. Ogni cambiamento è una evoluzione lenta che cambia nel momento in cui accade e la lasciamo accadere. Nella misura in cui scegliamo di cambiare noi stessi, cambiamo le cose, attiviamo processi. In una parola generiamo comunità.
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