Zitti e buoni? Ruoli, disuguaglianze e proteste di una maturità imperfetta
In questo mio primo anno nella scuola secondaria di secondo grado, dopo venti nella scuola secondaria di primo grado, ho avuto la possibilità di vivere gli esami di maturità e l’ho fatto in triplice veste: da commissaria esterna di italiano, da docente interna, che ha affidato la sua quinta ad un’altra commissione, e da mamma, perché la mia primogenita era tra i maturandi di questa annata, maturandi che, non dobbiamo dimenticare, avevano fatto la prova conclusiva del primo ciclo in piena pandemia e così, diciamoci la verità, non avevano mai affrontato una vera prova d’esame.
Grazie alle tre modalità di cui sono stata protagonista, direttamente e indirettamente, ho osservato molto, scegliendo sin dall’inizio di avere uno sguardo scevro da giudizi e da quel prepotente romanticismo che si presenta ogni anno prima e durante l’esame. Ho percepito nonostante la mia condizione da principiante che qualcosa non quadrava.
Una maturità imperfetta tra uguaglianza e vera equità
Primo giorno: la prova di italiano è identica in tutte le tipologie di scuola, nei professionali, nei tecnici e nei licei. Ma davvero ancora non comprendiamo che il concetto di uguaglianza non è sinonimo di equità? Pensiamo davvero che una ragazza o un ragazzo che abbia studiato in un liceo filosofia, letteratura greca e/o latina, più le letterature straniere, abbia gli stessi identici strumenti di una ragazza o un ragazzo che ha studiato in un professionale per l’agricoltura?
Secondo giorno: non so quanti sanno che la seconda prova nelle scuole professionali non viene inviata dal Ministero ma diventa oggetto di scelta (in alcuni casi la parola giusta potrebbe essere diatriba) all’interno delle commissioni, in cui membri interni ed esterni sono in competizione per dimostrare chi sia più bravo e competente nelle discipline di indirizzo.
In quel momento i professionali non sono più importanti per il Ministero? Possono ricorrere alla traccia “fai da te”, perché tanto sui giornali e in TV si parla sempre e solo della versione di greco e di latino, o al massimo del compito di matematica allo scientifico. Il secondo giorno i ragazzi e le ragazze dei professionali non competono con le eccellenze dei licei, e l’esame inclusivo per tutti (la livella di Totò) dislivella il giorno dopo ciò che era livellato il giorno prima, senza che nessuno proferisca parola.
Arriviamo all’orale, il colloquio interdisciplinare che il candidato deve imbastire nell’arco di qualche minuto dopo aver ricevuto un documento stimolo dalla commissione, vale a dire il documento che viene pensato per lui o lei sulla base di diverse macro aree che generalmente fanno riferimento ai temi principali o che più si adattano all’indirizzo scolastico in cui ci si trova.
L’idea di per sé è molto bella, ma presuppone conoscenze molto ampie e assolutamente non mnemoniche, competenze come spirito critico, una buona dose di creatività, riflessione e soprattutto una spiccata capacità di visione globale del sapere disciplinare e di cultura generale. Caratteristiche da vero uomo e donna matura. Peccato però che sia raro trovare un adolescente che le abbia coltivate e messe già sistemicamente a valore nel suo percorso di studio, perché, diciamoci la verità, troppo spesso ci sono ancora docenti che valorizzano solo ed esclusivamente il sapere disciplinare il più possibile ancorato al libro di testo o a quanto detto durante le cattedratiche lectio magistralis quotidiane. Lezioni frontali, ex cattedra: luogo della classe dove si esprime meglio l’autorità del docente.
Tutte e tre le prove devono portare al raggiungimento di una valutazione numerica che sommata ai crediti scolastici accumulati negli ultimi tre anni (e anche qui bisognerebbe fare una attenta riflessione) deve essere pari a un numero che stia tra 60 e 100.
Maturità e alunni diversamente abili: quali opportunità?
E gli alunni diversamente abili? Che esame di maturità è il loro?
Tutti hanno diritto ad affrontare l’esame: la scuola è inclusiva. Per loro ci sono due possibilità a seconda che il consiglio di classe, sulla base del PEI (Piano Educativo Individualizzato), abbia optato per prove equipollenti o non equipollenti. Se l’alunna o l’alunno affrontano prove equipollenti riceveranno il titolo di studio conclusivo del secondo ciclo di istruzione, altrimenti con prove non equipollenti riceveranno un attestato di credito formativo.
Per quanto riguarda questo delicato argomento bisogna tenere in conto le specificità di ogni singola situazione. Può però capitare di trovarsi di fronte ad alunni con un PEI per il quale i docenti del consiglio di classe scelgono prove non equipollenti per paura che i commissari esterni, ignoti fino a poche settimane dall’esame, non tengano in conto le fragilità degli esaminandi, o che questi ultimi non siano in grado di reggere la tensione, la pressione e le difficoltà connaturate all’esame stesso.
Mi sono sempre battuta affinché alunne e alunni con disabilità avessero le stesse opportunità dei propri compagni, proprio e in virtù del PEI, che li tutela o dovrebbe tutelarli anche quando svolgono una programmazione paritaria. Purtroppo assistiamo a esami brillanti di alunni DVA (diversamente abili) che non ricevono il diploma, pur superando di gran lunga le performance di loro colleghi maturandi che stentano a raggiungere il minimo sindacale di 60 e che comunque riceveranno il titolo.
Perché accade questo? Per la testardaggine, la mancata formazione specifica e la paura di docenti curricolari (soprattutto quelli di indirizzo) che, pur conoscendo i propri allievi, il loro percorso e le loro potenzialità, temono il giudizio personale di chi verrà dall’esterno, precludendo all’alunno DVA di poter accedere al mondo dei concorsi delle pubbliche istituzioni, proprio quelle istituzioni che permetterebbero loro di svolgere i lavori per cui hanno studiato con tutte le tutele dei singoli casi.
Insomma, ancora un’incapacità di essere realmente inclusivi a conclusione di un percorso di studi della scuola della Nazione più decantata a livello europeo per la normativa sull’inclusione scolastica.
Le proteste: un segnale da ascoltare
Torniamo ai nostri giorni e alle polemiche scaturite dalle proteste messe in atto da alcuni maturandi che hanno scelto di non svolgere il colloquio orale, per mettere in risalto ciò che secondo loro rende l’Esame di Stato e l’intero processo educativo del sistema scolastico italiano da rivedere profondamente. Ho letto articoli, post, ascoltato interviste di esperti, di opinionisti competenti e non, di “influcosi” che detesto e personaggi che mi ispirano, ma li ho trovati tutti concentrati sul “io al vostro posto avrei fatto così…”, a cui seguiva la ricetta della protesta che avrebbero messo in atto.
A me è stato insegnato che “la storia con i se e con i ma non si fa”. Non ha senso sciorinare opinioni su quanto sia matura o immatura la protesta: è una protesta, è un grido neanche tanto smodato che è venuto a rompere l’equilibrio preordinato che sapevamo tutti essere fragile. Sono abituata a lavorare con studenti e studentesse che tendono alla disobbedienza, talvolta con exploit emotivi carichi di una violenza verbale e comportamentale che la protesta vista durante la maturità può definirsi educata. Ho preparato le mie alunne e i miei alunni, oltre ad affrontare l’esame in sé, a essere pronte (uso il femminile perché ho prevalentemente classi composte da ragazze) a mantenere la calma, qualora durante quei giorni fosse accaduto loro qualcosa che non ritenevano giusto. Non le ho addestrate al silenzio, le ho accompagnate a prendere consapevolezza di quali comportamenti fossero più consoni al contesto in cui si sarebbero trovate: un esame di maturità. Quindi a respirare, provare a mantenere la calma e soprattutto a esprimere il proprio disappunto in modo il più possibile non violento.
Anche io pagai nel 1997 con una valutazione più bassa (di ciò che mi aspettavo o che mi meritavo?) perché osai rispondere alla presidente di commissione, commissione interamente esterna. Non accettavo il suo pregiudizio, esplicitato chiaramente nei miei confronti, rispetto al fatto che avessi scelto di frequentare la facoltà di lettere dopo il professionale per il commercio.
La protesta presuppone il coraggio di assumersi una responsabilità maggiore rispetto al silenzioso adeguarsi alle regole del buon comportamento. Non possiamo pretendere il rispetto partecipato delle regole se non includiamo la possibilità che arrivi un momento in cui qualcuno, anche una minoranza, possa non essere d’accordo ed esprimere in modo non violento il proprio dissenso.
La comunità educante, esperta e non, mi è sembrata impreparata ad affrontare questo passaggio. Molti hanno provato un senso di lesa maestà (spero inconscio) e da lì sono scaturiti i propositi sanzionatori futuri. Molti altri hanno sentito il bisogno di sostituirsi ai ragazzi e alle ragazze con i loro suggerimenti. Troppo pochi si sono detti che forse è tempo di comprendere cosa veramente non funzioni nella scuola e deve essere rivisto per il bene del processo educativo.
Il mio sguardo, questa volta, è incentrato su noi adulti incapaci di leggere, oltre gli eventi del momento, i segnali dei bisogni profondi che possono, se colti in tempo, diventare grandi occasioni per crescere con i nostri giovani, che restano il centro solo finché sanno stare al loro posto, finché, come cantavano i Måneskin, stanno “zitti e buoni”.
Lucia Suriano
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Lucia Suriano è docente nella scuola secondaria di secondo grado. Ha iniziato a ricercare e sperimentare modalità e strumenti che realizzino il vantaggio dell’Educare alla felicità (in ambito educativo scolastico). Ribalta stereotipi e falsi miti educativi per una scuola capace di includere realmente tutti partendo dalla potenza della fragilità. Per edizioni la meridiana è autrice di Educare alla felicità. Nuovi paradigmi per una scuola più felice (2016) e Lasciarsi ribaltare. La Scuola è aperta a tutti (2020).